MR04.
La Restrizione Alimentare Volontaria: Dal Digiuno Ascetico all’Anoressia Nervosa
- già Sapienza Università di Roma.
- ICR Villa delle Querce, Nemi
- Editor-in-Chief di Eating and Weight Disorders. Studies on Anorexia Bulimia Obesity
Cuzzolaro M
Premesse. Il concetto di restrizione alimentare volontaria (inglese restrained eating) è un costrutto sfuggente (1). L’espressione è utilizzata nella letteratura scientifica da circa quarant’anni (2) ma non esiste ancora una definizione sufficientemente condivisa: qual è il criterio quantitativo? qual è il criterio temporale? cosa indicano, esattamente, gli appellativi chronic dieter o restrained eater? E infine, come interpretare il legame fra restrizione e disinibizione, in particolare fra restrizione e bingeeating? L’espressione restrizione alimentare volontaria viene applicata, di fatto, a due fenomeni, almeno in parte diversi: mantenere intenzionalmente l’introito calorico giornaliero al disotto della spesa energetica (restrizione calorica in senso quantitativo che comporta un bilancio energetico negativo); oppure, più genericamente, imporsi di non mangiare parte di quello che si sarebbe tentati di mangiare seguendo un’alimentazione ad libitum (restrizione in senso quali-quantitativo che non porta necessariamente a un bilancio energetico negativo). Nell’una come nell’altra accezione, il comportamento restrittivo è ispirato, per lo più, dalla paura d’ingrassare o dal desiderio di perdere peso, per motivi estetici e/o medici. La restrizione alimentare volontaria è un comportamento trasversale che si osserva in entrambi i sessi, nelle varie età della vita a partire dai 5-6 anni (3), in classi sociali diverse (4), in tutto lo spettro dei pesi corporei. Può essere un atteggiamento desiderabile per la conservazione della salute o un sintomo nel quadro di un disturbo dell’alimentazione.
Obiettivi e Metodo. Una prima domanda a cui rispondere è dove tracciare il confine fra restrizione patologica e normale disciplina alimentare, tanto più auspicabile in un tempo in cui il rischio obesità è estremamente elevato. Un secondo punto d’indagine è l’esplorazione dei significati, individuali e culturali, di tale condotta alimentare. I due quesiti possono essere affrontati attraverso quattro linee d’indagine: le ricerche sugli effetti della restrizione calorica prolungata; le misure psicometriche dell’attitudine alla restrizione alimentare volontaria; le interpretazioni psicoanalitiche e, infine, quelle antropologico-culturali di tale comportamento umano.
Conseguenze del digiuno. Lo studio scientifico degli effetti biologici e psicologici del digiuno è il passo iniziale per affrontare il primo quesito (vedi presentazione di Spera G). A metà del Novecento, il Minnesota Study (5) inaugurò questo tipo d’indagini descrivendo cosa accadeva a un campione di giovani volontari maschi che per sei mesi ridussero del 50% il loro introito calorico giornaliero abituale perdendo circa il 25% del loro peso di partenza. Tra le conseguenze: astenia, riduzione della temperatura corporea e della frequenza cardiaca, edemi declivi, declino delle capacità intellettive e della libido, irritabilità, umore depresso etc. Studi successivi hanno permesso di conoscere meglio i meccanismi di adattamento al digiuno che consentono di modificare l’utilizzazione dei substrati energetici in relazione al rapido esaurimento di disponibilità del glucosio. La conoscenza degli adattamenti metabolici e ormonali al digiuno è essenziale anche per la prevenzione e il trattamento della refeeding syndrome. Da ricordare poi che i digiuni parziali e periodici risultano benefici per la salute e la restrizione calorica controllata, praticata per anni, aumenta l’aspettativa di vita in primati non umani(6).
Misure psicometriche. Alcuni test possono essere d’aiuto per valutare attitudini, tendenze e comportamenti sia in indagini epidemiologiche che in percorsi clinico-diagnostici individuali (vedi presentazione di Lombardo C). La psicometria offre vari strumenti, dai classici come il Three Factor Eating Questionnaire (7) ai più recenti come il Disordered Eating Questionnaire (8). Per questionari e interviste si pone il problema del punto di cut-off, punteggio soglia fra probabile normalità e probabile malattia.
La dimensione psicoanalitica. Le analisi psicologiche e gli studi antropologici sul tema, sono le fonti a cui attingere per rispondere al secondo gruppo di domande: qual è il senso, individuale e sociale, della restrizione alimentare volontaria? (vedi presentazione di Diluzio G).
La psicoanalisi sin dai suoi esordi si è occupata del trattamento di casi di anoressia nervosa e dell’influenza degli stati inconsci della psiche sulle funzioni istintive. L’anoressia nervosa, pone un enigma: come spiegare l’inibizione persistente di un istinto basilare di sopravvivenza, la fame. Nella storia del pensiero psicoanalitico, accanto alla classica lettura in termini di conflitto pulsioni-difese (Freud, Klein, Segal, Kernberg, etc…), si è sviluppato nel tempo un punto di vista che ha posto il Sé come organizzazione gerarchicamente sovraordinata a quella delle pulsioni e come nucleo auto-propulsivo dello sviluppo psichico (individuazione) (Winnicott, Kohut, Sands, etc.).
La dimensione antropologico-culturale. Il cibo non è solo ingerito: è pensato. Ha valenze simboliche che lo mantengono come un pendolo sospeso fra natura e cultura (10). Ogni religione promuove, in un modo o in un altro, il digiuno. Nel buddismo è una forma di autodisciplina ed è parte integrante di un percorso di formazione spirituale. Santa Caterina da Siena, dottore della Chiesa, descriveva il digiuno, portato all’estremo limite, come un passaggio decisivo per l’incontro con Dio (vedi presentazione di Milano W).
Discussione. Gli studi sulla restrizione alimentare, sono in grande attualità (11 e 12) ma la definizione di questo concetto è ancora sfumata e sfuggente. La limitazione volontaria dell’introito calorico giornaliero s’iscrive nel complesso sistema di regolazione teso tra fame e sazietà; a proposito di quest’ultima, la lingua inglese distingue con due vocaboli il complesso di fattori e di sensazioni che determina la fine del pasto (satiation) e quello, più durevole, che regola l’intervallo fra i pasti (satiety). Le teorie omeostatiche del set-point e quelle, più recenti, edoniche, che attribuiscono l’importanza maggiore al piacere del cibo, offrono punti di vista solo in parte integrabili nel tentativo di rispondere a domande come le seguenti: perché molte persone, sempre di più, non riescono a controllare la loro alimentazione e diventano obese, altre mantengono un peso normale e altre ancora pretendono di limitare l’assunzione di cibo al disotto del fabbisogno provocandosi un grave stato di malnutrizione?
Conclusioni. Ai nostri giorni, la motivazione a limitare volontariamente l’assunzione di cibo è sostenuta non solo dall’idolatria estetica della magrezza ma anche da studi sperimentali che suggeriscono che la restrizione calorica allunga l’aspettativa di vita e migliora la salute. L’umanità presenta attualmente i tassi di obesità più elevati mai raggiunti nella sua storia e, insieme, i tassi più elevati di disturbi dell’alimentazione di tipo restrittivo. In questi ultimi, la restrizione è sintomo di malattia e fattore di perpetuazione del quadro clinico. Nell’eccesso ponderale, invece, la restrizione è un’attitudine da ricercare, consolidare e modulare nel contesto di abitudini di vita complessivamente propizie per la salute. Tuttavia, le persone più suscettibili a cedere se esposte a stimoli alimentari sono proprio i restrained eaters, le persone a dieta. Per raggiungere una qualche comprensione di questi fenomeni, complessi e per certi aspetti contraddittori, dobbiamo forse allargare sempre di più l’angolo di sguardo e prestare attenzione a metodi d’indagine e a modelli interpretativi plurimi.
Bibliografia.
1. Johnson WG, Lake L, Mahan JM (1983) “Restrained eating: measuring an elusive construct” Addictive Behaviors 8, 413-8.
2. Herman CP, Mack D (1975) “Restrained and unrestrained eating” Journal of Personality 43, 647–660.
3. Ricciardelli LA, McCabe MP (2001) “Children’s Body Image Concerns and Eating Disturbance: A Review of the Literature” Clinical Psychology Review 21, 325-344.
4. Vetrone P, Cuzzolaro M (1996) “La spinta a dimagrire in un gruppo di studentesse provenienti da famiglie di classi sociali medio-basse” Psichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza 63, 665-676.
5. Keys A, Brozek J, Henschel A, Mickelsen O, Taylor HL (1950) “The biology of human starvation” (2 vols.) Minneapolis, University of Minnesota Press.
6. Hansen BC, Bodkin NL, Ortmeyer HK (1999) “Calorie restriction in nonhuman primates: mechanisms of reduced morbidity and mortalità” Toxicological sciences 52(2 Suppl), 56-60.
7. Stunkard AJ, Messick S (1985) “The Three-Factor Eating Questionnaire to measure dietary restraint and hunger” Journal of Psychosomatic Research 29, 71–83.
8. Lombardo C, Russo P.M., Lucidi F, Iani L, Violani C (2004) “Internal consistency, convergent validity and reliability of a brief Questionnaire on Disordered Eating (DEQ) “Eat Weight Disord 9, 91-98.
9. Sands S (1989) “Female Development and Eating Disorders. A self psychological perspective” In: Goldberg A (Ed) “Dimensions of self experience” Progress in self psychology, Hillsdale NJ, England: Analytic Press Inc 5, 75-104.
10. Rossi P (2011) “Mangiare, Bologna, Il Mulino
11. Fay SH, Finlayson G (2011) “Negative affect-induced food intake in non-dieting women is reward driven and associated with restrained-disinhibited eating subtype” Appetite 56, 682-8.
12. Robinson E, Blissett J, Higgs S (2011) “Peak and end effects on remembered enjoyment of eating in low and high restrained eaters” Appetite 57, 207-12.
La Restrizione Alimentare Volontaria: Dal Digiuno Ascetico all’Anoressia Nervosa
- già Sapienza Università di Roma.
- ICR Villa delle Querce, Nemi
- Editor-in-Chief di Eating and Weight Disorders. Studies on Anorexia Bulimia Obesity
Cuzzolaro M
Premesse. Il concetto di restrizione alimentare volontaria (inglese restrained eating) è un costrutto sfuggente (1). L’espressione è utilizzata nella letteratura scientifica da circa quarant’anni (2) ma non esiste ancora una definizione sufficientemente condivisa: qual è il criterio quantitativo? qual è il criterio temporale? cosa indicano, esattamente, gli appellativi chronic dieter o restrained eater? E infine, come interpretare il legame fra restrizione e disinibizione, in particolare fra restrizione e bingeeating? L’espressione restrizione alimentare volontaria viene applicata, di fatto, a due fenomeni, almeno in parte diversi: mantenere intenzionalmente l’introito calorico giornaliero al disotto della spesa energetica (restrizione calorica in senso quantitativo che comporta un bilancio energetico negativo); oppure, più genericamente, imporsi di non mangiare parte di quello che si sarebbe tentati di mangiare seguendo un’alimentazione ad libitum (restrizione in senso quali-quantitativo che non porta necessariamente a un bilancio energetico negativo). Nell’una come nell’altra accezione, il comportamento restrittivo è ispirato, per lo più, dalla paura d’ingrassare o dal desiderio di perdere peso, per motivi estetici e/o medici. La restrizione alimentare volontaria è un comportamento trasversale che si osserva in entrambi i sessi, nelle varie età della vita a partire dai 5-6 anni (3), in classi sociali diverse (4), in tutto lo spettro dei pesi corporei. Può essere un atteggiamento desiderabile per la conservazione della salute o un sintomo nel quadro di un disturbo dell’alimentazione.
Obiettivi e Metodo. Una prima domanda a cui rispondere è dove tracciare il confine fra restrizione patologica e normale disciplina alimentare, tanto più auspicabile in un tempo in cui il rischio obesità è estremamente elevato. Un secondo punto d’indagine è l’esplorazione dei significati, individuali e culturali, di tale condotta alimentare. I due quesiti possono essere affrontati attraverso quattro linee d’indagine: le ricerche sugli effetti della restrizione calorica prolungata; le misure psicometriche dell’attitudine alla restrizione alimentare volontaria; le interpretazioni psicoanalitiche e, infine, quelle antropologico-culturali di tale comportamento umano.
Conseguenze del digiuno. Lo studio scientifico degli effetti biologici e psicologici del digiuno è il passo iniziale per affrontare il primo quesito (vedi presentazione di Spera G). A metà del Novecento, il Minnesota Study (5) inaugurò questo tipo d’indagini descrivendo cosa accadeva a un campione di giovani volontari maschi che per sei mesi ridussero del 50% il loro introito calorico giornaliero abituale perdendo circa il 25% del loro peso di partenza. Tra le conseguenze: astenia, riduzione della temperatura corporea e della frequenza cardiaca, edemi declivi, declino delle capacità intellettive e della libido, irritabilità, umore depresso etc. Studi successivi hanno permesso di conoscere meglio i meccanismi di adattamento al digiuno che consentono di modificare l’utilizzazione dei substrati energetici in relazione al rapido esaurimento di disponibilità del glucosio. La conoscenza degli adattamenti metabolici e ormonali al digiuno è essenziale anche per la prevenzione e il trattamento della refeeding syndrome. Da ricordare poi che i digiuni parziali e periodici risultano benefici per la salute e la restrizione calorica controllata, praticata per anni, aumenta l’aspettativa di vita in primati non umani(6).
Misure psicometriche. Alcuni test possono essere d’aiuto per valutare attitudini, tendenze e comportamenti sia in indagini epidemiologiche che in percorsi clinico-diagnostici individuali (vedi presentazione di Lombardo C). La psicometria offre vari strumenti, dai classici come il Three Factor Eating Questionnaire (7) ai più recenti come il Disordered Eating Questionnaire (8). Per questionari e interviste si pone il problema del punto di cut-off, punteggio soglia fra probabile normalità e probabile malattia.
La dimensione psicoanalitica. Le analisi psicologiche e gli studi antropologici sul tema, sono le fonti a cui attingere per rispondere al secondo gruppo di domande: qual è il senso, individuale e sociale, della restrizione alimentare volontaria? (vedi presentazione di Diluzio G).
La psicoanalisi sin dai suoi esordi si è occupata del trattamento di casi di anoressia nervosa e dell’influenza degli stati inconsci della psiche sulle funzioni istintive. L’anoressia nervosa, pone un enigma: come spiegare l’inibizione persistente di un istinto basilare di sopravvivenza, la fame. Nella storia del pensiero psicoanalitico, accanto alla classica lettura in termini di conflitto pulsioni-difese (Freud, Klein, Segal, Kernberg, etc…), si è sviluppato nel tempo un punto di vista che ha posto il Sé come organizzazione gerarchicamente sovraordinata a quella delle pulsioni e come nucleo auto-propulsivo dello sviluppo psichico (individuazione) (Winnicott, Kohut, Sands, etc.).
La dimensione antropologico-culturale. Il cibo non è solo ingerito: è pensato. Ha valenze simboliche che lo mantengono come un pendolo sospeso fra natura e cultura (10). Ogni religione promuove, in un modo o in un altro, il digiuno. Nel buddismo è una forma di autodisciplina ed è parte integrante di un percorso di formazione spirituale. Santa Caterina da Siena, dottore della Chiesa, descriveva il digiuno, portato all’estremo limite, come un passaggio decisivo per l’incontro con Dio (vedi presentazione di Milano W).
Discussione. Gli studi sulla restrizione alimentare, sono in grande attualità (11 e 12) ma la definizione di questo concetto è ancora sfumata e sfuggente. La limitazione volontaria dell’introito calorico giornaliero s’iscrive nel complesso sistema di regolazione teso tra fame e sazietà; a proposito di quest’ultima, la lingua inglese distingue con due vocaboli il complesso di fattori e di sensazioni che determina la fine del pasto (satiation) e quello, più durevole, che regola l’intervallo fra i pasti (satiety). Le teorie omeostatiche del set-point e quelle, più recenti, edoniche, che attribuiscono l’importanza maggiore al piacere del cibo, offrono punti di vista solo in parte integrabili nel tentativo di rispondere a domande come le seguenti: perché molte persone, sempre di più, non riescono a controllare la loro alimentazione e diventano obese, altre mantengono un peso normale e altre ancora pretendono di limitare l’assunzione di cibo al disotto del fabbisogno provocandosi un grave stato di malnutrizione?
Conclusioni. Ai nostri giorni, la motivazione a limitare volontariamente l’assunzione di cibo è sostenuta non solo dall’idolatria estetica della magrezza ma anche da studi sperimentali che suggeriscono che la restrizione calorica allunga l’aspettativa di vita e migliora la salute. L’umanità presenta attualmente i tassi di obesità più elevati mai raggiunti nella sua storia e, insieme, i tassi più elevati di disturbi dell’alimentazione di tipo restrittivo. In questi ultimi, la restrizione è sintomo di malattia e fattore di perpetuazione del quadro clinico. Nell’eccesso ponderale, invece, la restrizione è un’attitudine da ricercare, consolidare e modulare nel contesto di abitudini di vita complessivamente propizie per la salute. Tuttavia, le persone più suscettibili a cedere se esposte a stimoli alimentari sono proprio i restrained eaters, le persone a dieta. Per raggiungere una qualche comprensione di questi fenomeni, complessi e per certi aspetti contraddittori, dobbiamo forse allargare sempre di più l’angolo di sguardo e prestare attenzione a metodi d’indagine e a modelli interpretativi plurimi.
Bibliografia.
1. Johnson WG, Lake L, Mahan JM (1983) “Restrained eating: measuring an elusive construct” Addictive Behaviors 8, 413-8.
2. Herman CP, Mack D (1975) “Restrained and unrestrained eating” Journal of Personality 43, 647–660.
3. Ricciardelli LA, McCabe MP (2001) “Children’s Body Image Concerns and Eating Disturbance: A Review of the Literature” Clinical Psychology Review 21, 325-344.
4. Vetrone P, Cuzzolaro M (1996) “La spinta a dimagrire in un gruppo di studentesse provenienti da famiglie di classi sociali medio-basse” Psichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza 63, 665-676.
5. Keys A, Brozek J, Henschel A, Mickelsen O, Taylor HL (1950) “The biology of human starvation” (2 vols.) Minneapolis, University of Minnesota Press.
6. Hansen BC, Bodkin NL, Ortmeyer HK (1999) “Calorie restriction in nonhuman primates: mechanisms of reduced morbidity and mortalità” Toxicological sciences 52(2 Suppl), 56-60.
7. Stunkard AJ, Messick S (1985) “The Three-Factor Eating Questionnaire to measure dietary restraint and hunger” Journal of Psychosomatic Research 29, 71–83.
8. Lombardo C, Russo P.M., Lucidi F, Iani L, Violani C (2004) “Internal consistency, convergent validity and reliability of a brief Questionnaire on Disordered Eating (DEQ) “Eat Weight Disord 9, 91-98.
9. Sands S (1989) “Female Development and Eating Disorders. A self psychological perspective” In: Goldberg A (Ed) “Dimensions of self experience” Progress in self psychology, Hillsdale NJ, England: Analytic Press Inc 5, 75-104.
10. Rossi P (2011) “Mangiare, Bologna, Il Mulino
11. Fay SH, Finlayson G (2011) “Negative affect-induced food intake in non-dieting women is reward driven and associated with restrained-disinhibited eating subtype” Appetite 56, 682-8.
12. Robinson E, Blissett J, Higgs S (2011) “Peak and end effects on remembered enjoyment of eating in low and high restrained eaters” Appetite 57, 207-12.