MCP.05
La Terapia Familiare Sistemica
"Villa Miralago" Centro per la cura dei Disturbi del Comportamento Alimentare, Cuasso al Monte (VA)
De Salvo C
Premessa. Nei primi anni Settanta gli studi sul comportamento alimentare nell' anoressia nervosa e nella bulimia nervosa hanno indotto le ricerche sui temi familiari – ambientali.
Nel 1974 Salvador Minuchin, attraverso lo studio delle modalità di comportamento e di comunicazione delle famiglie con una componente affetta da disturbi dell’alimentazione ha messo in evidenza il significato relazionale dell’inadeguata assunzione o del rifiuto di assumere cibo. Minuchin ha individuato certi tipi di organizzazione familiare che sembrano collegati allo sviluppo e al mantenimento di varie sindromi psicosomatiche, in particolare dell’anoressia nervosa: quattro tipi di transazioni familiari sembrano favorire lo sviluppo di sintomi psicosomatici: l’invischiamento, la rigidità, l’iperprotettività, l’evitamento dei conflitti.
Introduzione. Il trattamento del Disturbo Alimentare nel percorso di cura multidisciplinare strutturato prevede anche un percorso per la gestione della famiglia e dei temi familiari. Accompagna in parallelo lo svolgersi della riabilitazione psiconutrizionale della paziente affetta dal Disturbo Alimentare per un periodo di più mesi.
La paziente è disponibile a colloqui psicologici individuali e nutrizionali, a partecipare a terapie di gruppo e ad altre attività, nello stesso periodo la sua famiglia è ugualmente e volontariamente occupata in colloqui a cui partecipano tutti i componenti familiari e che si svolgono periodicamente con l'obiettivo di informare sul percorso di cura e con l'obiettivo di affrontare i temi che incastrano i componenti della famiglia nella patologia e nel tempo.
Descrizione. Un terapeuta familiare quando incontra una famiglia incontra un sistema che esprime la difficoltà ad affrontare una particolare tappa del suo ciclo vitale e quello che questo evento significa rispetto ai temi emotivi, alle relazioni familiari, alla storia della persona. Secondo il modello sistemico – relazionale il disturbo è studiato all’interno di processi di interazioni tra individuo e famiglia.
E’ nell'interazione tra famiglia e terapeuta che si gioca la costruzione di una relazione che possa indurre un cambiamento. L’ipotesi è che i sintomi si esasperano e si mantengono in quanto servono alle funzioni relazionali del sistema. Il rifiuto caparbio del cibo da parte di una persona che si ammala di anoressia nervosa, le abbuffate compulsive e l’iperfagia di chi soffre di bulimia nervosa o di chi sviluppa una obesità rappresentano una forma, per quanto disfunzionale, di autoaffermazione; sono l’unica soluzione in quel momento possibile per rivendicare una autonomia e uno spazio di controllo. Il comportamento anoressico della paziente designata è direttamente collegato a uno specifico gioco in atto nel suo gruppo familiare. Il sintomo sembra infatti rispondere alle esigenze autoconservative del sistema famiglia nella sua globalità e ha quindi una funzione adattativa per non subire l’angoscia e la paura della destrutturazione del sistema, tra il desiderio di cambiare e la paura o il senso di colpa per questo. Se il terapeuta riesce a decodificare e trattare tale gioco la paziente designata affronta l' abbandono del sintomo.
Le famiglie con disturbi del comportamento alimentare risultano molto spesso invischiate, caratterizzate cioè da confini individuali confusi con scarsa differenziazione dei ruoli e mancanza di autonomia personale. Tali famiglie appaiono rigide, diffidenti e isolate nei confronti degli altri. Mancano della flessibilità necessaria per fronteggiare crisi e bisogni individuali di cambiamento. La manifestazione delle emozioni, dei sentimenti e dei vissuti interiori è inibita. L’esperienza più importante che la famiglia può fare a questo riguardo in Terapia Familiare è la condivisione di emozioni tenute segrete o di emozioni che ognuno ha vissuto per sé.
A partire da questo il terapeuta si propone di costruire momenti in cui possano essere vissute esperienze nuove, sconosciute in cui la realtà può essere letta ed affrontata in modi diversi.
La famiglia venendo in terapia arriva senza più la speranza di trovare una soluzione alle proprie difficoltà, si propone con una delega a volte totale. In realtà la famiglia non è affatto sicura che i terapeuti siano in grado di offrire qualcosa di adeguato verso cui essere fiduciosi, non è affatto sicura di voler cambiare e che il cambiamento possa essere utile. E’ venendo in terapia che la famiglia compie un atto di fiducia insieme alla paziente che attraverso il sintomo ha portato la sua famiglia, è anche importante avere cura nel non esprimere giudizi o colpe che possono essere erronei o umilianti.
Grande attenzione va dedicata all'intervista con la famiglia, al terapeuta è concessa l'opportunità di entrare nella storia familiare ma molte volte questo affidamento è difficile e la famiglia chiede che sia la paziente designata a fare la terapia. Per comprendere veramente, non ci si può fermare solo a ciò che appare. Le famiglie che vengono in terapia hanno sviluppato in genere dei modelli transazionali disfunzionali per affrontare le tensioni e sono spesso incapaci di sperimentare altre modalità. L’esperienza fondamentale per la famiglia è poter sperimentare metodologie capaci di catalizzare i processi di cambiamento; l’obiettivo è che la famiglia riscopra di essere in grado di assumersi la responsabilità della risposta ai propri bisogni arrivando al riconoscimento della propria competenza.
L’intervento con il sistema familiare è un’occasione per mobilitare le risorse del nucleo familiare, presupponendo che il comportamento del singolo sia in stretta relazione con le regole del sistema interpersonale di cui fa parte, per cui se cambiano le modalità di relazione si modifica anche il comportamento individuale.
L’accesso alla storia trigenerazionale viene valorizzata e utilizzata per lo svelamento dei miti che legano le generazioni, la condivisione delle emozioni, degli affetti e dei valori. Questo viaggio tra le generazioni diventa anche un mezzo per pensare alla continuità e alla trasformazione del singolo e del sistema in modi nuovi allargando ad altre relazioni per cui diventa possibile differenziarsi. Il terapeuta familiare pensa che l’esperienza dell’ incontro terapeutico non è un evento qualunque, bensì un evento per il quale può avvenire un passaggio. L'opportunità di vivere una nuova esperienza in un contesto terapeutico è entrare in un momento particolare dell’esistenza della famiglia per cui si esce dal quotidiano.
E’ noto che il terapeuta familiare è più attivo di un terapeuta psicodinamico e si espone molto di più attraverso le domande relazionali. Queste domande contengono ipotesi sul funzionamento del sistema che poi andranno falsificate all’interno della relazione terapeutica; esse pongono quesiti sulle caratteristiche delle relazioni tra i membri della famiglia, sui vincoli intergenerazionali e mirano a connettere diversi livelli generazionali. Nel momento in cui un terapeuta fa una di queste domande sa che egli si assume il rischio di aprire su aree che pur visibili non possono essere dette e questo permette alla sofferenza del sintomo di proporsi come comunicazione e quindi come relazione.
Obiettivi. ll terapeuta è un osservatore neutrale e le sue spiegazioni sono legate alla propria soggettività, ha quindi il dovere di conoscere il proprio modo di pensare, i propri riferimenti, ha il dovere di valutare le conseguenze che sul piano sociale ed interattivo hanno gli interventi che esso effettua nei confronti del paziente e del sistema di appartenenza.
Il terapeuta attraverso un lungo allenamento ha imparato a differenziare le proprie emozioni da quelle che gli sono state messe dentro dalla famiglia. La capacità di mantenere il contatto emotivo con gli altri e nello stesso tempo avere un funzionamento emotivo autonomo è l’essenza del concetto di differenziazione. La scoperta del sentire dell’altro e il confronto con il proprio sentire, permette ad ognuno di comprendere il sistema e di chiarire e quindi differenziare la parte che ogni individuo vi interpreta senza attribuire responsabilità ad un unico individuo.
L’ipotesi di lavoro è ricercare l’evento, la situazione, il processo che hanno messo in moto modalità inadeguate di adattamento con il conseguente effetto disorganizzante sulle relazioni della famiglia.
Il lavoro è teso al riconoscimento, all’esplicitazione dei conflitti e alla sperimentazione di nuovi modi per affrontarli. Il terapeuta può rendere evidenti le triangolazioni.
La divisione in sottosistemi, il lavoro sulle vicinanze e le distanze, permette di vedere ciò che la famiglia non vede più, ossia come gli aspetti emotivi ed affettivi irrisolti hanno reso la struttura disfunzionale, attraverso la creazione di alleanze verticali, squalifiche genitoriali, impossibilità allo svincolo. L’esperienza conduce allo sperimentare una relazione terapeutica multidimensionale, che non riduca la complessità, ma costruisca un sistema di interazioni che aiuta a crescere e che si confronta con la complessità.
Bibliografia.
1. Minuchin S, Rosman BL, Baker L, (1978) “Famiglie psicosomatiche” Roma, Astrolabio
2. Selvini Palazzoli M, (1975) “L'anoressia mentale. Dalla terapia individuale alla terapia familiare” Milano, Feltrinelli
3. Selvini Palazzoli M, Cirillo S, Selvini M, Sorrentino AM, (1988) “I giochi psicotici nella famiglia” Cortina, Milano
4. Selvini Palazzoli M, Viaro M (1989) “Il processo anoressico nella famiglia: un modello a sei stadi a guida del trattamento individuale” Terapia Familiare 30, 5-19
La Terapia Familiare Sistemica
"Villa Miralago" Centro per la cura dei Disturbi del Comportamento Alimentare, Cuasso al Monte (VA)
De Salvo C
Premessa. Nei primi anni Settanta gli studi sul comportamento alimentare nell' anoressia nervosa e nella bulimia nervosa hanno indotto le ricerche sui temi familiari – ambientali.
Nel 1974 Salvador Minuchin, attraverso lo studio delle modalità di comportamento e di comunicazione delle famiglie con una componente affetta da disturbi dell’alimentazione ha messo in evidenza il significato relazionale dell’inadeguata assunzione o del rifiuto di assumere cibo. Minuchin ha individuato certi tipi di organizzazione familiare che sembrano collegati allo sviluppo e al mantenimento di varie sindromi psicosomatiche, in particolare dell’anoressia nervosa: quattro tipi di transazioni familiari sembrano favorire lo sviluppo di sintomi psicosomatici: l’invischiamento, la rigidità, l’iperprotettività, l’evitamento dei conflitti.
Introduzione. Il trattamento del Disturbo Alimentare nel percorso di cura multidisciplinare strutturato prevede anche un percorso per la gestione della famiglia e dei temi familiari. Accompagna in parallelo lo svolgersi della riabilitazione psiconutrizionale della paziente affetta dal Disturbo Alimentare per un periodo di più mesi.
La paziente è disponibile a colloqui psicologici individuali e nutrizionali, a partecipare a terapie di gruppo e ad altre attività, nello stesso periodo la sua famiglia è ugualmente e volontariamente occupata in colloqui a cui partecipano tutti i componenti familiari e che si svolgono periodicamente con l'obiettivo di informare sul percorso di cura e con l'obiettivo di affrontare i temi che incastrano i componenti della famiglia nella patologia e nel tempo.
Descrizione. Un terapeuta familiare quando incontra una famiglia incontra un sistema che esprime la difficoltà ad affrontare una particolare tappa del suo ciclo vitale e quello che questo evento significa rispetto ai temi emotivi, alle relazioni familiari, alla storia della persona. Secondo il modello sistemico – relazionale il disturbo è studiato all’interno di processi di interazioni tra individuo e famiglia.
E’ nell'interazione tra famiglia e terapeuta che si gioca la costruzione di una relazione che possa indurre un cambiamento. L’ipotesi è che i sintomi si esasperano e si mantengono in quanto servono alle funzioni relazionali del sistema. Il rifiuto caparbio del cibo da parte di una persona che si ammala di anoressia nervosa, le abbuffate compulsive e l’iperfagia di chi soffre di bulimia nervosa o di chi sviluppa una obesità rappresentano una forma, per quanto disfunzionale, di autoaffermazione; sono l’unica soluzione in quel momento possibile per rivendicare una autonomia e uno spazio di controllo. Il comportamento anoressico della paziente designata è direttamente collegato a uno specifico gioco in atto nel suo gruppo familiare. Il sintomo sembra infatti rispondere alle esigenze autoconservative del sistema famiglia nella sua globalità e ha quindi una funzione adattativa per non subire l’angoscia e la paura della destrutturazione del sistema, tra il desiderio di cambiare e la paura o il senso di colpa per questo. Se il terapeuta riesce a decodificare e trattare tale gioco la paziente designata affronta l' abbandono del sintomo.
Le famiglie con disturbi del comportamento alimentare risultano molto spesso invischiate, caratterizzate cioè da confini individuali confusi con scarsa differenziazione dei ruoli e mancanza di autonomia personale. Tali famiglie appaiono rigide, diffidenti e isolate nei confronti degli altri. Mancano della flessibilità necessaria per fronteggiare crisi e bisogni individuali di cambiamento. La manifestazione delle emozioni, dei sentimenti e dei vissuti interiori è inibita. L’esperienza più importante che la famiglia può fare a questo riguardo in Terapia Familiare è la condivisione di emozioni tenute segrete o di emozioni che ognuno ha vissuto per sé.
A partire da questo il terapeuta si propone di costruire momenti in cui possano essere vissute esperienze nuove, sconosciute in cui la realtà può essere letta ed affrontata in modi diversi.
La famiglia venendo in terapia arriva senza più la speranza di trovare una soluzione alle proprie difficoltà, si propone con una delega a volte totale. In realtà la famiglia non è affatto sicura che i terapeuti siano in grado di offrire qualcosa di adeguato verso cui essere fiduciosi, non è affatto sicura di voler cambiare e che il cambiamento possa essere utile. E’ venendo in terapia che la famiglia compie un atto di fiducia insieme alla paziente che attraverso il sintomo ha portato la sua famiglia, è anche importante avere cura nel non esprimere giudizi o colpe che possono essere erronei o umilianti.
Grande attenzione va dedicata all'intervista con la famiglia, al terapeuta è concessa l'opportunità di entrare nella storia familiare ma molte volte questo affidamento è difficile e la famiglia chiede che sia la paziente designata a fare la terapia. Per comprendere veramente, non ci si può fermare solo a ciò che appare. Le famiglie che vengono in terapia hanno sviluppato in genere dei modelli transazionali disfunzionali per affrontare le tensioni e sono spesso incapaci di sperimentare altre modalità. L’esperienza fondamentale per la famiglia è poter sperimentare metodologie capaci di catalizzare i processi di cambiamento; l’obiettivo è che la famiglia riscopra di essere in grado di assumersi la responsabilità della risposta ai propri bisogni arrivando al riconoscimento della propria competenza.
L’intervento con il sistema familiare è un’occasione per mobilitare le risorse del nucleo familiare, presupponendo che il comportamento del singolo sia in stretta relazione con le regole del sistema interpersonale di cui fa parte, per cui se cambiano le modalità di relazione si modifica anche il comportamento individuale.
L’accesso alla storia trigenerazionale viene valorizzata e utilizzata per lo svelamento dei miti che legano le generazioni, la condivisione delle emozioni, degli affetti e dei valori. Questo viaggio tra le generazioni diventa anche un mezzo per pensare alla continuità e alla trasformazione del singolo e del sistema in modi nuovi allargando ad altre relazioni per cui diventa possibile differenziarsi. Il terapeuta familiare pensa che l’esperienza dell’ incontro terapeutico non è un evento qualunque, bensì un evento per il quale può avvenire un passaggio. L'opportunità di vivere una nuova esperienza in un contesto terapeutico è entrare in un momento particolare dell’esistenza della famiglia per cui si esce dal quotidiano.
E’ noto che il terapeuta familiare è più attivo di un terapeuta psicodinamico e si espone molto di più attraverso le domande relazionali. Queste domande contengono ipotesi sul funzionamento del sistema che poi andranno falsificate all’interno della relazione terapeutica; esse pongono quesiti sulle caratteristiche delle relazioni tra i membri della famiglia, sui vincoli intergenerazionali e mirano a connettere diversi livelli generazionali. Nel momento in cui un terapeuta fa una di queste domande sa che egli si assume il rischio di aprire su aree che pur visibili non possono essere dette e questo permette alla sofferenza del sintomo di proporsi come comunicazione e quindi come relazione.
Obiettivi. ll terapeuta è un osservatore neutrale e le sue spiegazioni sono legate alla propria soggettività, ha quindi il dovere di conoscere il proprio modo di pensare, i propri riferimenti, ha il dovere di valutare le conseguenze che sul piano sociale ed interattivo hanno gli interventi che esso effettua nei confronti del paziente e del sistema di appartenenza.
Il terapeuta attraverso un lungo allenamento ha imparato a differenziare le proprie emozioni da quelle che gli sono state messe dentro dalla famiglia. La capacità di mantenere il contatto emotivo con gli altri e nello stesso tempo avere un funzionamento emotivo autonomo è l’essenza del concetto di differenziazione. La scoperta del sentire dell’altro e il confronto con il proprio sentire, permette ad ognuno di comprendere il sistema e di chiarire e quindi differenziare la parte che ogni individuo vi interpreta senza attribuire responsabilità ad un unico individuo.
L’ipotesi di lavoro è ricercare l’evento, la situazione, il processo che hanno messo in moto modalità inadeguate di adattamento con il conseguente effetto disorganizzante sulle relazioni della famiglia.
Il lavoro è teso al riconoscimento, all’esplicitazione dei conflitti e alla sperimentazione di nuovi modi per affrontarli. Il terapeuta può rendere evidenti le triangolazioni.
La divisione in sottosistemi, il lavoro sulle vicinanze e le distanze, permette di vedere ciò che la famiglia non vede più, ossia come gli aspetti emotivi ed affettivi irrisolti hanno reso la struttura disfunzionale, attraverso la creazione di alleanze verticali, squalifiche genitoriali, impossibilità allo svincolo. L’esperienza conduce allo sperimentare una relazione terapeutica multidimensionale, che non riduca la complessità, ma costruisca un sistema di interazioni che aiuta a crescere e che si confronta con la complessità.
Bibliografia.
1. Minuchin S, Rosman BL, Baker L, (1978) “Famiglie psicosomatiche” Roma, Astrolabio
2. Selvini Palazzoli M, (1975) “L'anoressia mentale. Dalla terapia individuale alla terapia familiare” Milano, Feltrinelli
3. Selvini Palazzoli M, Cirillo S, Selvini M, Sorrentino AM, (1988) “I giochi psicotici nella famiglia” Cortina, Milano
4. Selvini Palazzoli M, Viaro M (1989) “Il processo anoressico nella famiglia: un modello a sei stadi a guida del trattamento individuale” Terapia Familiare 30, 5-19